Detta fu la fine, la fine, si chiamò per nome.
Germogliavano pensieri strato-isterici sulla penisola del Corpo tra le mura antiche dei ricordi. Passavano uccelli bianchi veloci come proiettili e la finestra sembrava un oblò di un aereo in accelerazione. Ricordo il getto d’acqua di qualche ora prima che affogava gerani e tessiture di Kircher. Il dolore cadeva a scrosci ed era inodore, sterile preposizione verso questo futuro che si chiama “oggi-stesso”. Danzavano sogni alcaloidi, mentre precipitavano le mie gambe con tutto il resto verso la barella dei portantini bianchi e blu. L’odore presunto che sapevo a memoria teorizzava percorsi ma senza sapere niente del percorso.
Io sapevo tutto. Dedalo disegnò l’inizio e la fine e mai senza arrendermi ho visto ogni pertugio necrotico.
Risveglio. La mutilazione del presente. Niente è come il risveglio. Ascorbico muovermi tra le lentezze.
Respiravo il groviglio dei minuti, senza curarmi della cura. Sapevo che tutto dipendeva dalla reazione e non dalla somministrazione.
Dovresti tacere mi dicevo ma non riuscivo a considerare altro se non il miscuglio delle parole che si seccavano in bocca, parole che fuggivano dall’affogarsi in quell’asciutto di lingua e labbra screpolate a faraglioni. Muoviti mi dicevo ma avevo la forza impiastrata di crampi e scivoli di sudore, mi spingevo dai piedi verso l’alto coi polpacci a stantuffare un sollievo desiderato a suon di morsi sulle labbra.
Il tempo aveva perso, e mi risvegliò tra incudini di voci e mormorii di vento.
Il tempo aveva perso e trovai l’oceano d’occhi che sognai ove tuffarmi per un tempo indefinito rivolto al mai più.
Eccomi giunto in questo adesso. Senza dolore e senza questo adesso, mi muovo libero di usare questo involucro.
Avrò cura di me.