ZeroDueDiLuglio del Ventiquindici


Basterebbe dire quel che si sente prima di quel che si pensa.
Il mondo non sarebbe certo migliore, ma scopriremmo persone anziché gente.

ZeroUnoDiLuglio del Ventiquindici


I sogni dei sognanti che vengono dimenticati.

Il loro triste destino è di tornare a essere un giorno dei merdosissimi déjà vu.

Magico si parla addosso


Germogliavano pensieri strato-isterici sulla penisola del Corpo tra le mura antiche dei ricordi. Passavano uccelli bianchi veloci come proiettili e la finestra sembrava un oblò di un aereo in accelerazione. Ricordo il getto d’acqua di qualche ora prima che affogava gerani e tessiture di Kircher. Il dolore cadeva a scrosci ed era inodore, sterile preposizione verso questo futuro che si chiama “oggi-stesso”. Danzavano sogni alcaloidi, mentre precipitavano le mie gambe con tutto il resto verso la barella dei portantini bianchi e blu. L’odore presunto che sapevo a memoria teorizzava percorsi ma senza sapere niente del percorso.

Io sapevo tutto. Dedalo disegnò l’inizio e la fine e mai senza arrendermi ho visto ogni pertugio necrotico.

Risveglio. La mutilazione del presente. Niente è come il risveglio. Ascorbico muovermi tra le lentezze.

Respiravo il groviglio dei minuti, senza curarmi della cura. Sapevo che tutto dipendeva dalla reazione e non dalla somministrazione.

Dovresti tacere mi dicevo ma non riuscivo a considerare altro se non il miscuglio delle parole che si seccavano in bocca, parole che fuggivano dall’affogarsi in quell’asciutto di lingua e labbra screpolate a faraglioni. Muoviti mi dicevo ma avevo la forza impiastrata di crampi e scivoli di sudore, mi spingevo dai piedi verso l’alto coi polpacci a stantuffare un sollievo desiderato a suon di morsi sulle labbra.

Il tempo aveva perso, e mi risvegliò tra incudini di voci e mormorii di vento.

Il tempo aveva perso e trovai l’oceano d’occhi che sognai ove tuffarmi per un tempo indefinito rivolto al mai più.

Eccomi giunto in questo adesso. Senza dolore e senza questo adesso, mi muovo libero di usare questo involucro.

Avrò cura di me.

Conversazioni Economiche


Non pensavo che il dolore, questo dolore fosse così. É tutto così strano. Le cose brutte ora mi sembrano addirittura belle in certi casi. E qualche persona mi fa addirittura pena. Mi sembra di diventare invincibile. Questo dolore mi preoccupa quando non c’è, perché è in questo momento che mi chiedo dove sono. Il dolore è il mio esserci. Finalmente mi colloco in questo mondo di “qualsiasi” e di “tutti”.

(Conversazioni Economiche – con Barbara Goti)

L’ospite


Respiro la poltiglia di quelle ore umide. Umide e luride ansie che coccolano il mio senso estetico, il mio senso etico, e la mia ipossica ipocrisia sul passato. Passato come un giorno assassino, come un giorno sgualcito tra gli ossidi invernali dove la pioggia è un giorno intero. Intero come la metà di questo doppio che mi rappresenta, la coagulazione di me stesso. Me stesso che è vomito di un ubriaco col passo sbilenco. Sbilenco sguardo riflesso, osservatorio maniacale di questa attesa. Attesa di questo ospite che vive tra un po’ più in là di questo posto e dentro. Dentro di me c’è questa attesa.

L’ospite è indeciso . Si suppone venga da un posto sconosciuto.

L’ospite non pare abbia una fama particolare. Nessuno lo teme ma il dubbio suscita sempre ambiguità.

L’ospite è un silenzioso nottambulo dove presta servizio come sogno nelle notti di primavera.

L’ospite vuol capire e comprendere come me chi meglio dei due può essere l’ospite gradito.

Respiro la poltiglia di queste ore e trattengo il respiro per più tempo possibile. Me lo ha insegnato l’ospite, per farmi capire quale sia la sua paura più grande.

Il teatro sul tuo parquet


A te si giunge solo attraverso di te (Pedro Salinas)

A te si giunge solo
attraverso di te. Ti aspetto.

Io certo so dove sono,
la mia città, la strada,
il nome con cui tutti mi chiamano.
Ma non so dove sono stato con te.
Lì mi hai portato tu.

Come
potevo imparare il cammino
se non guardavo altro
che te,
se il cammino erano i tuoi passi,
e il suo termine l’istante che tu ti fermasti?
Cosa ancora poteva esserci oltre a te
offerta, che mi guardavi?

Ma ora,
quale esilio,
che assenza essere dove si è!
Aspetto, passano treni,
il caso, gli sguardi.
Mi condurrebbero forse
dove mai sono stato.
Ma io non voglio i cieli nuovi.
Voglio stare dove sono già stato.
Con te, tornare.
Quale immensa novità
tornare ancora,
ripetere, mai uguale,
quello stupore infinito!

E finchè tu non verrai
io rimarrò alle soglie
dei voli, dei sogni,
delle scie, immobile.
Perchè so che là dove sono stato
nè ali, nè ruote, nè vele
conducono.
Hanno tutte smarrito il cammino.
Perchè so che là dove sono stato
si giunge solo
con te, attraverso di te.

Le tavole del teatro son cavalloni di Iroko liscio, facili da cavalcare per un furfante della maschera come me, e le mie maschere non calpestano mai l’asfalto se non per accompagnarmi, ne si posano l’una sull’altra. Sono una dentro l’altra, contenute e contenitore, e sul tuo parquet sguscio le migliori per difendermi dentro al mio di guscio. La tua piccozza fatta di smorfie e sguardi incrina ogni volta questo guscio, che in realtà è troppo morbido, e i colpi secchi ci affondano e forse una lama sarebbe più adatta per squarciarne la placenta. Oltre un anno fa arrivai spaventato più da me stesso che dal dolore, e da lì è seguito un percorso, un viaggio nelle mie incrinature, nei gorghi e nei posti bui, siamo passati da paesaggi maestosi attraverso il mondo delle nostre parole al mondo dei tuoi sguardi parlanti. Potrei mentire a tutti fino ad arrivare a me stesso, ma non ti nascondo, ma nemmeno parlo di me e di te.

In buona sostanza non parlo di me. Sarebbe raccontarmi mentre adesso vorrei essere raccontato.

Il viaggio è un’intimità funzionale al risultato, e io so quanto ho curato me stesso conoscendoti. Sai talmente molto di me che a volte ho quasi l’impressione che tu conosca anche il mio futuro, che disdegno tanto fino ad averlo contemplato come inesistente, dove l’ho disegnato nella mia teoria Aion esclusa dal Kronos e da tutti i merletti dei ricordi.

Salinas credo abbia visto nell’essenza l’empatia.

E l’unica certezza che ho del futuro è racchiusa in questa poesia.

Natale dopo il 31


A Natale aspetto le impronte sugli ultimi spolveri di ghiaccio e asfalto, rimuovo il sale dalle ossa scuotendomi i petali e lisciandomi le vele delle ali, piccoli stantuffi che si tendono come i polpacci. Natale non festeggio niente se non la festa degli altri, che vedo ridere, stridere e schiamazzare, in un ordine di cose e fotogrammi che mi riportano a un passato mai visto, con l’incertezza che mi piega sull’incudine del dubbio atroce e notturno, è stato uno spavento o il tuo abbraccio? Natale è l’occasione per ritrovarmi con i rancori dei miei giorni bambini, vecchi amici coi ginocchi secchi e sanguinanti, quelli coi calzini tirati fin su tutta la tibia. A chi tocca stare in porta? Un calcio e il sudore freddo sulla camicia bianca. Natale è il simposio delle rimembranze, delle culture a zucchero a velo, ripiego sulla finestra e mi affaccio su quel silenzio pomeridiano mentre si scuotono le tovaglie dai davanzali, ed è Natale anche per i passerotti, che si sfiniscono di briciole di pane e pizzichi di noci. Natale è il momento dei miei desideri mai realizzati, un Everest di sogni irraggiungibili, una gola profonda sulla Fossa delle Marianne, accidenti a te Leo, furfante di periferia, mai uscito dalla Cattedrale delle tue sicurezze, fuori ti aspettava il mondo, era il giorno Ventisei di quel Dicembre ballerino, vestito di sole tiepido e sudore sotto i giacconi invernali. Natale.

Me stesso è una coltre di porte chiuse.

Ad aspettarmi preferisco me stesso. L’inganno è sempre vestito da Babbo Natale, una festa a cui neanche lui crede, ma partecipa con fervore e premura.

Desèrtus


Mi affaccio in questo abisso del ritorno che mi non desti più

nel bene, nel male, nel bene sul male del male di me

piovono granelli sui giorni che mancai di mancarti

da che mancasti in assenza e sul vuoto del perdono

ancore sulle briciole di questa pioggia affilata

che uccise i miei battiti sul marciapiede di quei seni

nel bene, nel male, nel bene sul male di me

t’aspetto in questo abisso del ritorno che non aspetta più

l’arido e l’umido sfilare sul groviglio del pericardio

dove mancasti nei giorni che tornai per cercarmi

nel bene, nel male, nel bene sul male di me

non sento che il rombo del grido sul niente e su tutto di me

nel bene, nel male, dal bene del male di me

l’insonnia e la noia

di non avvertir più

un cieco risveglio

Solo in certi occhi


Solo in certi occhi si leggono le meraviglie del mondo

Non v’è nient’altro in quest’iride, plasma di cristalli

Solo in questi occhi si vedono le meraviglie del mondo

Non c’è verità che sveli quanto il mondo sia perfetto

senza il riflesso dell’uomo.

 

sofiawekesa20132014

 

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