Puer Aeternus


Venti14.

L’origine di questo nuovo anno si scontrerà verso le ricorrenze.

Il Venti13 ormai è storia. Anacronistico simposio di ricordi. Vecchiezze temporali.

Non concedo a me stesso il “bis”. Gli sguardi s’incrociano, e mi duole dirti che non son più l’uomo che ero quando ti abitavo.

Non chiedere come sto, dovresti chiedermi “dove sto”.

Sono fuori dalle fila. Volteggio il mio esseruncolo con gli stessi jeans e le stesse magliette.

L’eleganza dell’etica la misuro col cuore. Tant’è che vorrei sparire mentre nel vederti ti scorsi nell’apparire tra le figure dei mercenari del sabato sera.

Le briciole per colmare le tue insicurezze eterne, vorresti passassero da me, ma ormai Io “mi sono” dimenticato. Dovresti farlo anche tu. In virtù di quel che ti ho dato, la mia vita, non rimane per te che il polverìo di un vecchio mobile coperto dal telo bianco.

E ti ho rivisto piccola come ti vidi la prima volta.

Bambina intrepida in preda alla voglia di avere un corpo e non di esserlo.

Non ti sorrisi, ma di questo poco importa.

Quel che importa è il futuro che non ho più necessità d’avere.

Adesso mi sento solidale con me stesso, considerato il mio percorso, e visto che non possiamo essere indipendenti e liberi da alcunchè.

Solidali con se stessi.

E’ il primo passo verso l’incantevole.

Verso l’incantevole me stesso.

Sorrido.

Omocinetrico 21/12/2010


Io ti voglio ricordare così.

Con il tuo sorriso profumato d’oceano.

Le mani grandi da meccanico.

Il tuo profumo di jeans e camicie fresche.

Con te ho legato i momenti più importanti della mia vita.

Il nomignolo che tu mi desti. Non lo svelammo mai a nessuno il significato.

Ho scelto io la tua cravatta oggi.

Mi mancherai, ma ti penserò talmente tanto che sentirò di nuovo la tua voce che mi chiama “Omocinetri’o!”

Io mi volterò, e troverò quell’oceano che mi sorride a bagnarmi l’anima.

Sempre con me.

La noia


Mi muoiono gli occhi nel sonno e nel sogno
che palpebra la notte sciolta e ruvida sul ricordo
Lacrima il giorno con il lurido tremolio
e il viscido scordarsi della luce roca sul tramonto
Il mescolarsi fluido della pioggia sulle ciglia
anonimo richiamo d’andare a sfinirsi senza meta
Mi muoiono gli occhi sul giorno sfinito
finito e scomparso sciolto e ruvido sul ricordo
[sui passi più lenti del ritorno a casa]

ConVerso Me


La mia ombra si dilata al verso dei miei passi. S’unisce in forme dal marciapiede, all’ultima danza delle ringhiere. La mia ombra che m’assomiglia silenziosa mentre si muove tra i fiordi di luce e il buio del suo sguardo.

La mia ombra sciolta sul riflesso di seta, dal vetro umido di fiato si libera piegandosi sul vento, mentre guardandomi s’infuria sgretolando foglie in turbinii.

La mia ombra mi precede col sole sulle spalle, tra questo camminar l’asfalto come liquirizie mattutine. La mia ombra, che d’alba e buio mi scoprì in questi oceani di mani diroccate su di me.

La mia ombra è già qui mentre mi sta lasciando agli occhi, il tempo migliore.

Torturamente


Tu mi scavavi.

Scucivi il lembo del mio sesso.

Coi colpi dei tuoi reni.

Sopra di te.

Scioglievi la mia schiena coi tuoi fendenti.

Eri ovunque.

Tra l’umido e l’avorio della mia pelle.

Mi tingevi la schiena coi tuoi occhi verde amore.

Il sale della tua bocca.

I miei seni esplodevano sulla tua lingua.

Dura.

Ruvida.

Bagnata.

Sopra di te.

Adoravo vederti sotto di me.

Ti stringevo i fianchi.

Ti vedevo morire sotto i miei colpi.

Distruggevo il tuo orgasmo.

Bevevo il miele spremuto e dannato.

Volevo te, dentro fino ad attraversarmi.

Contemporaneamente.

Tu.

Mi tenevi i capelli, passandomi il braccio dietro la schiena.

Le gocce salate del tuo desiderio mi scuoiavano le vertebre.

Sentivo gonfiarti dentro di me.

Mi completavi.

D’amore e di noia.

Di sesso e carezze.

Mi ungevi la bocca col bagnato dei tuoi occhi.

Sopra di te.

Ovunque anche se mai stata tua.

Ti volevo dentro.

Mangiarti.

Finirti con le mie labbra.

Che la bocca ti trovava.

Le mani.

Tormento sui miei fianchi.

Mi tenevi.

Per non farmi uscire mai.

Per morirti dentro.

Dove solo io volevo.

Dove solo io volevo.

Averti.

Altrove.

In un immenso qui.

M’arancio da solo, nuvolando qua e là


Oggi sarà caramella da scartare per le orecchie, croccante sotto i denti, coi miei pensieri di mielina, dove mi ricorderò puzzle di giorni come cirri. Nel mio nembostrato profumoso di terra umida, che nel voltarmi mi bracca il cirrocumulo delle mie fantastiche idiosincrasie. Ed allora cumulonembo i miei principi, e scrollo le mie spalle in stratocumoli. Ne vale la pena.

M’arancio.

E lo faccio con me stesso, qua e là.

(01:11) End Of Cardio


La danza si scioglie in scaglie di petali arancioni, dai passi scricchiolano le foglie che dal turbine epicardio (tra)sudano il capillare tessuto di te.

La danza si muove e tracima la tua pelle, tricuspide mancanza dove sono io convesso in diastole su di te.

Sono io su di noi, coronario incontro nell’essenza assenza di questa danza mitrale.

Come capelli di petali marroni che cadono sui passi e muoiono nel calpestìo di bradicardi giorni.

Sui passi, sui passi dove l’orizzonte in cerca di finito, trova la mia iride che (s)finisce di fine.

Nocche Rosette


Quel giorno di mattina fra l’eterno e un minuto, Terrazzo starnutì fuliggine e uno sbuffo di bruma. Il freddo tagliava l’alba per metà l’arcobaleno che come un aratro sventrò quel temporale notturno lasciando uno sbadiglio di sole. Terrazzo dai suoi occhi come appendini scrutava quell’orizzonte fermo, mosso solamente dal vento e dai riflessi delle finestre che incontravano lame di sole, sognava in uno slancio di ringhiera di tuffarsi in direzione di quell’ignoto vuoto, pronto a volteggiare come gli uccelli, che ogni tanto, gli lasciavano un modo per desiderare la pioggia da certi momenti di calura. Il sole sventagliava i suoi raggi, e Terrazzo ormai vedeva il quartiere che si svegliava. La domenica era trascorsa con la pioggia, tristemente buia e malinconica, rugginosa come il colore della sua pelle. Terrazzo adorava la primavera e le punte di freddo salmastro serale, perché gli ricordava i tempi in cui l’orizzonte era vuoto come un recipiente da riempire, e che da lì a qualche anno, avrebbe visto sparire cercando dagli angoli dei palazzi intorno, quel pezzo d’orizzonte che tanto desiderava di nuovo scorgere. Il tempo lo avevo reso scuro, oltre allo spessore di antiruggine e vernice nera che si portava ormai addosso da molti anni. Ricordava con piacere il periodo in cui il vecchio padrone, il panettiere Forlàn, ogni periodo dell’anno al cambio della stagione, lo strigliava da cima a fondo con la carta vetrata e lo rivestiva a nuovo, col nero “lucido laccato” che solo il nome della vernice lo faceva sentire un attore di Hollywood con il suo smoking alla prima cinematografica. Forlàn era un omone grande, con le mani grandi, tanto grandi che al posto delle nocche sembrava avere delle rosette da 50 centesimi. Ed erano caldissime e forti. Non aveva famiglia, e come diceva lui, fra il fumo della sigaretta senza filtro e il calare del sole, “..non sono stato capace..”. Con quelle parole sembrava ogni volta dire un addio e un arrivederci allo stesso tempo. Le parole del vecchio Forlàn sembravano aver conosciuto da sempre la saggezza di chi nella vita ha potuto soffrire e godere abbastanza dei giorni, tanto da poter raccontare senza bisogno di ricordare, e di ascoltare sapendo già di ascoltare ancora. Gli occhi grigi e con il taglio sottile lo facevano sembrare ancora più grande, e immensamente triste. Ma questa favola, non avrà nè un lieto fine, nè un finale drammatico che valga la pena raccontare. Questa favola finisce. E sarà la fine a coincidere con il tempo, che ci permetterà di rileggere ancora il racconto che Terrazzo gridò, ai 20 venti di primavera, e che loro nel mulinare muoversi sussurrarono ai poeti. Ogni sera dopo cena Forlàn si appoggiava alla ringhiera, facendo sentire tutto il suo massiccio essere stanco. Scrutava lontano con quello sguardo che sapeva già ogni verità per ogni conclusione. E quel giorno finì. Come voleva lui. Afferrò la ringhiera con le mani possenti, con la sedia fece un gradino, e fu in piedi sul corrimano di ferro. Terrazzo non riusciva a capire, quando Forlan esclamò le parole; “ Io m’impasto per sempre “. E così, il vecchio panettiere, si lanciò nel vuoto con le braccia aperte, a spirare il vento che soffiava di tramontana, sul tramonto color arancino in quell’umido autunno. Terrazzo con la ringhiera livida di dolore seguì il volo, che terminò sulla strada sterrata in uno sbuffo di farina. I molti che sentirono il tonfo quando si affacciarono videro quella nube bianca e candida ricadere ovunque, ed il profumo di farina e crosta di pane invase ogni papilla. Terrazzo era bianco come non lo era mai stato. Terrazzo capì le parole del vecchio Forlàn. Terrazzo le ricorda tutt’ora, e non dimentica mai la parola “per sempre”.

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